Recensioni foto 21

Published on Giugno 3rd, 2010 | by ila

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“Il tempo che ci rimane”: la recensione

“Il tempo che ci rimane”: la recensione ila
Voto CineZapping

Summary: La testimonianza di come sobrietà e limitatezza dei mezzi possano rivelarsi una meravigliosa terapia per la creatività.

4.25

Film Grandioso


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È un’opera silenziosa “Il tempo che ci rimane”, nuova pellicola del palestinese Elia Suleiman (“Intervento divino. Cronaca d’amore e di dolore”) che uscirà nelle sale italiane a partire da domani 4 giugno.

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Il tempo che ci rimane

Un film che è cinema nel senso più profondo del termine – lasciando che siano le immagini a comunicare più dei pochissimi e scarni dialoghi presenti nella sceneggiatura – e non lo è per niente a causa dell’ispirazione documentaristica e semi-autobiografica – dove la finzione non ha respiro, ma è sempre e comunque al servizio del fatto realmente accaduto – e dell’impianto asciutto e antidrammatico, che tanto si allontana da quei film ricchi di effetti speciali, di ansia del gesto e della parola, di costruzione sensazionale e ridondante che costituiscono ormai la maggior parte delle pellicole visionabili sul grande schermo. Ecco la prima impressione che deriva da “Il tempo che ci rimane”, un pervasivo senso di stranezza. Anche lo sguardo dello spettatore esperto, dell’instancabile frequentatore di sale cinematografiche, davanti alle immagini, al ritmo, al look, al mood del film di Suleiman si ritrova miracolosamente vergine, stupito, a tratti ingenuo.

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Il tempo che ci rimane

Elia Suleiman riporta sullo schermo una tematica a lui cara, quella del lungo e luttuoso conflitto israelo-palestinese e ce lo racconta attraverso le testimonianze delle generazioni che sono cresciute e invecchiate in una Palestina conquistata dall’esercito israeliano. I diari del padre Fuad (interpretato da Saleh Bakri), che si unì alla resistenza palestinese, e le corrispondenze della madre (da giovane è Samar Qudha Tanus), sono il substrato pulsante a partire dal quale Suleiman realizza il suo film. Sono i ricordi che prendono vita sullo schermo e questo spiega la particolare costruzione de “Il tempo che ci rimane”, film che non racconta una continuità, ma procede per raccordi tra decenni diversi dove il sottile filo rosso del tempo che passa è incarnato proprio da Elia Suleiman, che vediamo passare attraverso l’infanzia e l’adolescenza fino ai tempi odierni (dove Elia invecchiato è interpretato dal regista stesso).

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Il tempo che ci rimane

Lascia davvero straniati che un film che racconta una guerra presenti un approccio così intimo, dove momenti universali di storia si uniscono al vissuto familiare e personale fatto di piccole cose, di dettagli apparentemente privi di senso per lo spettatore. In effetti la guerra non vi è rappresentata, ma solo suggerita, sussurrata: nonostante i diversi momenti di violenza all’interno del film – uccisioni sommarie, violazioni delle vite private, saccheggi di ogni bene prezioso rimasto nelle case abbandonate, camionette dei soldati armati che si aggirano per la città ricordando il coprifuoco e limitando le libertà personali –, tutto ne esce ovattato, quasi irreale. Questo non è solo dovuto al fatto che la violenza non è esibita, ma soprattutto perché è descritta in chiave comica e surreale. I soldati sono rappresentati come burattini dai movimenti irrigiditi e meccanici, la cui ottusità li dota della involontaria capacità di trasformare scene squallide in momenti esilaranti: il soldato israeliano che prende un sasso per arrivare all’altezza di Fuad e riuscire a bendarlo; i due militari che piegano un lungo telo rubato da una casa mettendo in scena una sorta di danza di marionette in stile “Il grande dittatore”; o, ancora, i sorveglianti notturni che ogni sera chiedono a Fuad e all’amico impegnati nella pesca chi sono, cosa fanno e da dove vengono, senza riuscire a intuire che si tratta sempre delle stesse persone.

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Il tempo che ci rimane

La stessa chiave di lettura ironica, a tratti grottesca, è riservata agli arabi israeliani, ovvero i palestinesi rimasti in patria e privati della loro nazionalità: il vicino di casa che a giorni alterni minaccia di darsi fuoco col kerosene, la zia Olga impazzita e la cui miopia l’ha resa ormai quasi cieca, i genitori preda dei soliti gesti e delle solite frasi e il bambino Elia, che manca di qualsiasi vitalità, tiene sempre la testa abbassata e, dall’inizio del film, nonostante la crescita e la vecchiaia, non pronuncia mai una parola e mantiene sempre la stessa espressione a metà tra l’attonito e l’inebetito. Suleiman descrive così lo straniamento, l’alienazione, la durezza della vita dei palestinesi rimasti dopo il 1948, completamente privati dell’individualità, delle emozioni, dell’anima. Non a caso spesso sono lasciati fuori quadro, quasi non fossero vivi per davvero: quando Fuad innaffia le sue piante in giardino, sono loro le protagoniste, le uniche ad avere mantenuto qualche velleità esistenziale; o, ancora, la mamma che si alza la notte per mangiare il gelato di nascosto, solo il gelato rimane in campo a testimoniare quel barlume di plaisir de vivre che sembra ormai così lontano.

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Il tempo che ci rimane

Se la pacata calma con cui Elia Suleiman rilegge la sua storia e quella straniante ironia che a tratti sfocia nel non-sense costituiscono un approccio originale e stimolante, rischiano, protratti per tutta la durata del film, di rendere il tutto un po’ forzato e ripetitivo. Hanno però il grandissimo pregio di avere gettato un’occhiata sulla Palestina sincera e molto lontana dalla mistificazione e dal feticismo in cui la sovraesposizione mediatica l’ha relegata per anni. “Il tempo che ci rimane” è una perfetta testimonianza di come la sobrietà e la limitatezza dei mezzi possano rivelarsi una meravigliosa terapia per la creatività.

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