Recensioni Un piccione seduto su un ramo riflette sullesistenza

Published on Febbraio 4th, 2015 | by Erica Belluzzi

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Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza: la recensione

Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza: la recensione Erica Belluzzi
Voto CineZapping

Summary: 39 quadri di trasognata e non-sense narrazione sull'infelicità umana.

4

Utimo capitolo della trilogia di Andersson


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Seppur scevro da qualsiasi impalcatura filmica tradizionale – tre atti, personaggi che attraversano un viaggio di scoperta esistenziale cui segue la redenzione finale -, Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, indaga con un realismo quasi disturbante aspetti della quotidianità d’ogni essere umano.

Il film, vincitore del leone d’oro alla settantunesima mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è caratterizzato dallo stesso rigore formale con cui Roy Andersson aveva diretto i suoi due precedente Songs From the Second Floor e You, the Living, configurandosi come il capitolo finale di una trilogia sull’essere umano.
Nonostante il rapporto che lega questi tre film, Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza può essere fruito individualmente, così come ciascuna delle trentanove scene in cui è suddiviso, -alcune connesse tematicamente e logicamente, altre no-, può essere compresa separatamente.

Per ciascuna di esse Andersson fissa la cinepresa in un punto e l’azione si muove davanti allo spettatore, venendo così a costruire un quadro vivente. Non a caso l’immagine è stata ispirata da diverse esperienze pittoriche, da artisti rinascimentali fino alla Neue Sachlichkeit, conosciuta anche come Nuova Oggettività, e a Edward Hopper. Da Otto Dix a Georg Scholz, due artisti tedeschi le cui innovazioni sono state ispirate dalle loro esperienze nella prima guerra mondiale, la presenza della pittura e dell’arte è tangibile nella costruzione visiva dell’immagine di Un piccione.

Genialmente il titolo è già di per sé una dichiarazione di poetica circa la considerazione che Andersson nutre della situazione umana. Nella prima scena un uomo scruta attentamente degli uccelli impagliati in diverse gabbie di vetro, mentre la moglie lo aspetta con rassegnazione (un tratto Andersson attribuisce a molti dei suoi personaggi). Dopo aver posato lo sguardo su un piccione pelle e ossa e aver lasciato la stanza, la camera si sposta e noi spettatori osserviamo per qualche momento il volatile, prima che lo schermo si annerisca e compaia il titolo. Solo grazie a questo semplice espediente, dando cioè una vita interiore al piccione, che pare fermo sul ramo a osservarci e giudicarci, presagiamo la chiave di lettura con cui poi Andersson ci suggerirà di guardare ai suoi personaggi (e forse agli umani in generale): curiose creature imbalsamate, senza reale possibilità di azione.

Come una coppia di Don Chisciotte e Sancho Panza catapultata nella modernità, Sam (Nils Westblom) e Jonathan (Holger Andersson), depressi venditori ambulanti di travestimenti e articoli “per aiutare le persone a divertirsi”, compiono un caleidoscopico viaggio che li vedrà protagonisti delle più assurde e illogiche situazioni, nonché testimoni delle esperienze degli altri personaggi, fra cui spicca un’insegnante di flamenco che tenta di commettere un abuso sessuale su un alunno, e il giovane e spregiudicato re svedese Carlo XII, ora ritratto come un docile essere umano più che un avido conquistatore.
Un piccione seduto su un ramo riflette sulla sua esistenza
Ciononostante, il contenuto narrativo dei trentanove quadri che compongono il lungometraggio gioca, nell’economia del film, un ruolo meno importante rispetto al modo in cui questi sono esteticamente resi. Bloccando la telecamera in un punto ben preciso Andersson è in grado di rendere ogni scena comicamente statica, quasi fossero piccole gag sul comportamento umano, in cui tutti gli attori (la maggior parte dei quali non professionisti) mostra a malapena una qualche espressione.
La stasi di ogni singola scena e la lentezza esagerata dei movimenti pare suggerire che qualcosa di importante potrebbe accadere in qualsiasi momento, colorando così scene apparentemente (troppo) tranquille con un’energia ansiosa riguardo quello potenzialmente requia nel sempiterno silenzio.
In questo senso è strabiliante, per la sensazione di disagio che incute nello spettatore, la scelta di ricoprire di trucco bianco gli attori, facendoli apparire come svuotati dei loro fluidi vitali, quasi fantasmi delle loro stesse esistenze.

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