Recensioni bronson poster

Published on Giugno 18th, 2011 | by Marco Valerio

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Bronson: la recensione

Bronson: la recensione Marco Valerio
Voto CineZapping

Summary: La straordinaria complessità di un personaggio solo all’apparenza monolitico e esclusivamente dominato da istinti bassi e brutali.

4

Film Grandioso


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Michael Peterson è un uomo molto violento, refrattario alle mediazioni a parole e che anzi si mette spesso nei guai. Ha però un sogno, quello di diventare famoso. Ma per raggiungere il successo ha bisogno di soldi, così va a rapinare un ufficio postale, rubando una cifra ridicola e sfidando a suon di botte le forze dell’ordine; per questo si becca sette anni di prigione. L’indole violenta di Michael lo porta ad essere coinvolto continuamente in risse e per questo viene spostato prima in manicomio criminale e poi viaggia senza soluzione di continuità tra varie prigioni. Quando finirà di scontare la sua pena, un amico conosciuto in cella gli proporrà di diventare un lottatore e prenderà lo pseudonimo di Charles Bronson, richiamandosi all’attore protagonista della serie cinematografica “Il guerriero della notte”. Michael/Charles nonostante la nuova identità non riesce a controllare la propria natura animalesca e per questo motivo la sua libertà è destinata a durare molto poco.

bronson poster

Bronson

Con un’inspiegabile ritardo di tre anni (!) rispetto all’uscita americana, finalmente esce nelle sale italiane (seppure in maniera clandestina condannandolo all’invisibilità e al disastro in termini commerciali) il film di Nicolas Winding Refn; una scelta probabilmente legata al premio alla regia conquistato dal regista danese con il suo “Drive”. “Bronson” è un film scomodo, violento e difficile. Difficile perché Refn sposa in pieno l’estremismo del suo personaggio e la sua natura animalesca, brutale e terrificante; per questo la messa in scena è eccessiva, ipertrofica e a tratti snervante, ma mai gratuità e anzi sempre funzionale a restituire fedelmente la psicologia, la caotica complessità e l’impatto devastante su ambienti e persone circostanti del personaggio interpretato magistralmente da Tom Hardy. Salutato come l’”Arancia Meccanica” del terzo millennio, “Bronson” possiede molti tratti in comune con il capolavoro di Stanley Kubrick, benché presenti al suo interno certi (pochi a dir la verità) momenti di stanca a livello narrativo e l’elemento grottesco tenda ad essere ripetitivo in alcuni passaggi. Si pensi ad esempio alla cornice del teatro cui Bronson si rivolge durante tutta la durata del film; un vero e proprio coro greco che fa da collante a tutte le vicissitudini del personaggio. Bronson si rivolge al suo uditorio con la sfacciata arroganza di chi non prova il minimo rimorso per tutte le cose terribile compiute, semplicemente perché sono state compiute per raggiungere uno scopo, un obiettivo, un bene più grande: la fama. Il film è molto violento, ma è una violenza mai stilizzata, mai spettacolarizzata eccessivamente e quindi svuotata della propria aberrante mancanza di senso. La violenza si combina con un umorismo che non punta ad essere mai conciliante o a ridimensionare la portata orrorifica che le immagini ci mostrano; l’umorismo si fa strada grazie al grottesco, usata in maniera sofisticata e straordinariamente intelligente per raccontare l’assurdità e la stoltezza delle azioni del nostro protagonista e per ricordare come la stupidità sia la madre di ogni violenza. Bronson/Peterson non ha avuto un’istruzione, una famiglia, degli amici su cui contare, è privo di una sovrastruttura e tutto quello che conosce è il suo lato animale che gli procura grandi soddisfazioni, soddisfazioni che punta a perpetrare ad ogni costo.
Refn ci racconta la straordinaria complessità di un personaggio solo all’apparenza monolitico e esclusivamente dominato da istinti bassi e brutali. Infatti il film si articola seguendo parallelamente i comportamenti di una mente malata votata all’estremo, ma allo stesso tempo questa mente spietata e distruttrice e al contempo lucidissima. La sua è una follia organizzata e cosciente. Ma Bronson è anche una storia di solitudine, di un personaggio che ha vissuto costantemente in isolamento rispetto al resto del mondo e anche una volta individuato il suo posto naturale (cioè il carcere) si è sempre ritrovato in isolamento per via delle sue azioni. Il discorso che Bronson fa sulla pazzia e sull’arte diventa man mano sempre più interessante: il protagonista cerca sempre costantemente un modo per esprimersi. È a tutti gli effetti un’artista in tutto quel che fa: quando dipinge, quando è sul ring, quando recita, ed è un’artista della violenza. Che si compiace degli applausi dei carcerati quando picchia duro, che cerca il consenso. Un piccolo grande film che merita assolutamente di essere recuperato e che soddisferà i palati dei cinefili più esigenti, così come buona parte della filmografia di Nicolas Winding Refn, un autore ancora sconosciuto al grande pubblico, ma che ha, di sicuro, un gran avvenire di fronte a sé.

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